C’è un aspetto non secondario nella tregua (non ancora “pace”) raggiunta a Gaza tra Israele e Palestina. E cioè che sono state ancora una volta le armi della diplomazia, non la diplomazia delle armi (ammesso che sia tale) ad ottenere risultati concreti. D’altra parte, è grazie alla mediazione se la gran parte degli ostaggi detenuti da Hamas sono stati liberati nei mesi scorsi, se prigionieri palestinesi senza garanzie giudiziarie sono stati restituiti alle loro famiglie, se c’è stato, in più occasioni, il cessate il fuoco a Gaza e gli aiuti, per un tempo troppo breve, avevano ricominciato a fluire nella striscia di Gaza. Su altro versante, è stato grazie alla mediazione se prigionieri di guerra russi ed ucraini sono tornati a casa, se è stato possibile stabilire corridoi protetti per l’esportazione di cereali dall’Ucraina, se la centrale nucleare di Zaporizhzhia è stata finora preservata dal fuoco incrociato delle due parti. Per questo, la mediazione ha una sua sacralità laica. C’è perciò qualcosa di internazionalmente sacrilego dal punto di vista diplomatico quando vengono colpiti – come avvenuto nelle scorse settimane a Doha – gli stessi mediatori. Un attacco all’idea stessa di diplomazia.
In un mondo sempre meno governato dalle regole e sempre più influenzato dai rapporti di forza, la diplomazia tende ad essere vista come una risorsa debole, come un’arma spuntata. Non è raro imbattersi, perciò, in titoli ad effetto, come «la fine della diplomazia» addirittura “la morte della diplomazia”. A me pare che più che della fine della diplomazia si dovrebbe piuttosto parlare del tradimento della diplomazia. Oggi la diplomazia viene tradita in un duplice senso. Da chi governa, quando non la si prende sul serio, senza darle davvero credito come possibilità di soluzioni pacifiche delle controversie, sostenendo la tesi assai discutibile che la pace si raggiunge attraverso la forza. Dagli stessi diplomatici, quando rinunciano al ruolo, che loro compete, di “oltranzisti del dialogo”, assecondando invece ideologie nazionalistiche o egemoniche.
Il politologo Ronan Farrow, qualche anno fa, aveva parlato di “guerra alla pace”, nella forma di una progressiva marginalizzazione del metodo diplomatico del dialogo e dell’ascolto a favore delle forza militare o della propaganda. Eppure, la diplomazia rimane uno strumento fondativo di un mondo più civile e meno troglodita. Essa torna sempre, testardamente, sul suo punto focale, e cioè evitare, risolvere o quanto meno contenere i conflitti, costruire se non ponti almeno, più modestamente e realisticamente, delle passerelle, dei passaggi impervi e spesso difficoltosi, delle serpentine piuttosto che delle linee rette. Se è vero che il fallimento della diplomazia porta alla guerra, è anche vero che il fallimento della guerra porta alla diplomazia.
La diplomazia, invece di affidarsi a logiche strumentali e falsamente realistiche, dovrebbe ripartire dalla pace come causa primaria, che viene ben prima di ogni idea di nazione. La cosiddetta “Realpolitik” non ha nulla di realistico e ancora meno è una politica. Se ci fosse per la diplomazia l’analogo del giuramento di Ippocrate per i medici, forse lo chiameremmo il “Giuramento di Erasmo”. Il Giuramento impegnerebbe i diplomatici a considerare la loro missione non solo come servizio al proprio Stato, ma come mandato verso l’intera umanità. È un appello a riscoprire la diplomazia come coscienza del limite e campo delle relazioni disarmate. Prima di tutto non nuocere, diceva l’antico giuramento di Ippocrate. In un mondo frammentato e polarizzato, dove sembra prevalere la volontà di potenza rispetto alla ricerca dell’intesa, l’idea di un “Giuramento di Erasmo per i diplomatici” (qui proposto) non è solo un’aspirazione utopica, ma la riaffermazione della dimensione etico-politica per una diplomazia che voglia tornare alle sue radici profonde, quella della paziente costruzione della pace.
Giuramento di Erasmo
Io, chiamato a svolgere la mia missione diplomatica tra le nazioni ed i popoli del mondo, giuro:
• di ricordare sempre che “nulla è più empio, nulla più sciagurato, nulla più dannoso della guerra”;
• di levare la mia voce contro ogni guerra ingiusta, rammentando che “nessuna vittoria militare è tanto gloriosa da non costare più di ciò che promette: la pace giusta è la sola vera vittoria”;
• di ispirare il mio servizio ai principi fondativi della comunità internazionale, come il principio universale che ogni nazione deve ripudiare la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie;
• di adoperarmi con mente sincera e cuore retto a spegnere i focolai di discordia, rammentando che “se la pace sparisce, tutto precipita insieme con essa: le leggi, la giustizia, ogni cosa che è buona”.
• di non ispirare la mia azione all’antagonismo né ad ambizioni egemoniche, ma di impegnarmi per la fraternità universale, riconoscendo in ogni popolo e in ogni persona la stessa dignità e gli stessi diritti, promuovendo la giustizia, la riduzione delle disuguaglianze e condizioni di vita più eque per tutti;
• di non piegare mai la mia missione alla falsità né alla slealtà, poiché “la pace vera si fonda sulla giustizia e sulla verità, non sull’inganno o sulla violenza”;
• di considerare la mia missione non solo come un leale servizio al mio Paese, ma come mandato verso l’umanità intera e con le generazioni future, proteggendo la dignità umana, favorendo lo sviluppo equo e garantendo i diritti fondamentali dei più deboli.
• di custodire e difendere la Terra, nostra casa comune, riconoscendo che non vi possa essere pace tra i popoli senza pace con la natura, in un’ottica planetaria che includa ogni essere vivente e l’intero ecosistema.
Così giuro, e invocherò la pace non solo con le parole, ma con ogni atto del mio ufficio, fino a che durerà la mia opera nel mondo.
Le citazioni sono tratte dalle opere di Erasmo da Rotterdam: Dulce bellum inexpertis (1515); Institutio principis Christiani (1516); Querela pacis (1517)